“Chiedere è vergogna di un momento, non chiedere è vergogna di una vita”.
Così recita un proverbio giapponese mettendoci in guardia dalla nostra difficoltà nel fare domande ma, soprattutto, sulle sue conseguenze.
Proviamo a pensare alle situazioni lavorative in cui avremmo voluto chiedere perché qualcosa non ci era chiaro o semplicemente non eravamo d’accordo.
Cosa ci ha impedito di fare delle domande e magari ci ha fatto stare in silenzio o ci ha messo sulla difensiva, portando le nostre ragioni con forza?
Trovo che la scelta della parola “vergogna” del proverbio sia molto interessante perché racchiude una serie di spunti di riflessione da cui partire per iniziare a cambiare approccio nei confronti di questo strumento di comunicazione, estremamente utile.
Nella mia esperienza personale e professionale non chiediamo perché non ci sentiamo alla pari con il nostro interlocutore e quindi scambiamo il diritto a fare domande con il dovere morale di non dare fastidio o disturbo:
“come faccio a chiederglielo? È il mio capo! Poi magari pensa che sono una spina nel fianco e sono rovinato!Tra l’altro, col carattere che si ritrova!”
Altre volte non chiediamo perché partiamo disillusi che le nostre parole non verranno ascoltate e che sarà solo una grande perdita di tempo:
“cosa glielo dico a fare? Tanto è inutile, qui non cambia mai niente!”
In certe situazioni, poi, evitiamo di chiedere perché ci urta per principio che l’altro non sia arrivato da solo a capire cose per noi evidenti, che non abbia colto immediatamente qual è il nostro bisogno e si sia già mosso per realizzarlo:
“se fosse una persona con un minimo di interesse/sensibilità ci sarebbe arrivato da solo, no? Devo veramente chiedere una cosa così ovvia?”
Infine, ci troviamo a non fare domande perché temiamo che chiedere porti all’altro a dubitare delle nostre capacità e competenze e quindi a fare brutta figura:
“E se poi pensano che non sono all’altezza?”
In tutti questi casi io leggo un sottofondo di vergogna: per noi, per l’altro, per la situazione.
Ci vergogniamo per la risposta che potremmo ricevere o dare, senza fermarci a riflettere che quella risposta che ci crea imbarazzo o fastidio in realtà potrebbe essere frutto di una domanda che non aveva un obiettivo preciso.
Con quale scopo io REALMENTE chiedo? Quale informazione o azione HO BISOGNO di ottenere?
Ecco, io credo che per domandare agli altri abbiamo, prima di tutto, bisogno di domandare a noi stessi.
Spesso confondiamo l’effetto con la causa come ad esempio quando chiedo al mio responsabile di poterci vedere perché non riesco ad andare avanti con il mio lavoro. Mi dimentico che il mio obiettivo è poter proseguire con il compito che mi è stato assegnato e non semplicemente chiedergli un incontro. Quindi quando lui non mi risponde o mi dice che non ha tempo, mi arrendo e penso che io la domanda l’ho fatta e non mi ha portato a niente e magari mi ritrovo a fare cose che poi si rivelano errate o a impiegare il doppio del tempo a concludere qualcosa che con il suo supporto avrebbero non solo abbreviato il processo ma anche fornito un’informazione da riutilizzare per le volte successive con nuove competenze. E magari, nel frattempo ad essere accusato di metterci troppo o di non aver fatto come si sarebbe dovuto, generando in me frustrazione e delusione.
“Rimango ignorante” perché la mia domanda era rivolta all’effetto del mio bisogno (parlare con lui) e non alla causa (sapere come continuare con il lavoro) e mi convinco che non ne vale la pena, che domandare non abbia alcun beneficio reale.
Se invece siamo forti del reale scopo con cui chiedo qualcosa, so come continuare quella conversazione con altre domande:
- cosa succede se non ho quell’informazione?
- quali conseguenze potrebbe generare?
- che slittamento di tempi comporterebbe?
- in che modo reagirebbe lo stesso responsabile che ora “mi nega” l’incontro?
Vedete quante domande concrete si generano e mi permettono di proseguire e mettere in chiaro la situazione, con calma e lucidità? Smette di diventare “personale” e si trasforma in “professionale”.
Sparisce la vergogna perché appare (e mi supporta) l’obiettivo.
“Temo che senza l’incontro potrei metterci più tempo del dovuto perché è la prima volta che faccio questa cosa e potrei far aspettare di più il cliente. Procedo ugualmente e vediamo strada facendo?”
Se il mio responsabile mi dà l’ok non subirò le conseguenze di eventuali ritardi ed errori, perché con la mia domanda l’ho chiarito e concordato prima. Se invece, sentendo questa argomentazione chiara e che rimanda ad una sua responsabilità decisionale, lui dovesse realizzare che un ritardo o un errore non è pensabile, probabilmente avrò quell’incontro.
Domandare per smettere di essere ignoranti, appunti. Ma prima di tutto smettere di esserlo, sapendo quale informazione realmente ci manca.
E tu, quali difficoltà trovi nel fare domande?
Seguimi nel video che presenta le tipologie di domande efficaci possibili e, nel frattempo, se hai domande su un tuo caso concreto, io sono qui per rispondere.
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